” QUANNO CE VO’ CE VO'”: LA PAROLACCIA

Talvolta sono liberatorie, all’ occorrenza necessarie, altre salvifiche, “meglio una parolaccia di un cazzotto nel muso!”

Sicuramente espressioni coincise e soprattutto efficaci.

Si dice essere stata sdoganata dagli egiziani, che illo tempore bestemmiavano già senza ritegno!

Testimoni papiri e geroglifici, dove il dio Thot risultava ” essere privo di madre”, Neffi, ” una femmina senza vulva” e il dio Ra, ” con la cappella vuota”.

I romani decisamente più raffinati; quando perdevano le staffe, davano del ” sannita” al nemico.

I fondatori dell’ Urbe consideravano questi italici, che si erano opposti alle loro legioni, dei rozzi montanari; dunque ” sporco sannita” l’ offesa della peggior specie.

I medioevali, razzisti e classisti per eccellenza, ritenevano offensivo il termine ” villano” da intendersi come abitante della campagna e non solo la provenienza ma anche la professione e il cibo potevano essere elementi squalificanti; dunque i napoletani “mangiafoglia” ( di cavolo) e i siciliani ” mangiamaccauna”.

Per non parlare poi delle fazioni, perennemente in lotta fra loro, si offendevano in base allo schieramento; a Firenze erano i tempi dei ” malghibellino cacato” e del ” guelfo traditore” accompagnato rigorosamente al ” fiorentino marcio”.

La parolaccia ha la sua innata dualità; volgare, ironica, provocatoria, sfidando il perbenismo in ogni sua declinazione ma anche istintiva, genuina, emotiva.

Complesso definirne i contorni e i confini linguistici.

Estremizzando il concetto, su una sponda la valenza salvifica e il riconoscimento di una certa necessità e urgenza, d’ altronde anche il linguaggio può possedere nuance negative che fanno parte dell’ estensione di quelle dell’ essere umano; dall’ altra la maturità di saperla gestire e controllarla all’ interno di una dimensione sociale, la civiltà.

Nella Divina Commedia ci sono e ce n’è un uso oltremodo abbondante, soprattutto nell’ Inferno, sterco, vacca, merda, per giungere al Paradiso e incontrare la ” vagina”; nel XVII canto, a proposito di Taide, ” sozza e scapigliata…puttana…che là si graffia con le unghie merdose”.

E’ presente sempre un distinguo doveroso: ci sono parolacce che attaccano la dignità e la stima di un individuo, costituendosi a tutti gli effetti degli insulti e altre invece che rafforzano uno stato d’ animo, che descrivono un sentimento del momento, che colorano una narrazione.

La parolaccia , in qualche maniera rimette al centro della scena colui che la pronuncia, gli fa recuperare spazio e potere, più o meno come quando un bambino ne pronuncia una e i genitori si voltano indignati e scandalizzati; in quell’istante restituisce al fanciullo, seppur in accezione negativa, l’ attenzione.

Forse aveva ragione Carlo Porta, quando affermava che non esisteva e non esiste un linguaggio più o meno decoroso, perché le parole stesse non sono mai volgari; lo possono diventare ma questa trasformazione dipende dall’ intelligenza e dalla cultura di chi le pronuncia.

” Nulla è volgare di per sé ma siamo noi che facciamo volgarità secondo che parliamo o pensiamo” ( C. Pavese)

C’è chi intorno ad una parolaccia è stato in grado anche di scrivere monologhi d’ eccezione!

Gigi Proietti, fulgido esempio del sapiente utilizzo della parolaccia, che in bocca a lui, parolaccia non era più ma solo un altro modo per dare voce al pensiero: “stronzo: epiteto che si usa per persone imbecilli, inette, incolte…no, io non sono d’ accordo perché stronza anche una persona colta può esserlo, anzi a vorte più so’ colti…”.

Ha raccontato verità universali spiegandole con poche parole nelle quali ognuno di noi si è sempre ritrovato; fuoriclasse del palcoscenico, eclettico, votato alla cultura suprema, esempio lampante di quanto l’ arte e l’ ironia siano terapeutiche.

Mai volgare, con il suo ” Pietro ammicca” e tanto garbo, con la contezza di chi riconosceva il limite e non lo varcava, eleganza e signorilità uniche.

” Vaffaculo non è ‘na parolaccia, ma ‘n meta turistica da consijà a ‘n sacco de gente”.

Francesca Valleri