“HARAGEI”

” Haragei” è un termine che non trova riscontro in nessuna lingua del mondo, non esiste e la sua traduzione si trasforma in un’ impresa altrettanto ardua.

Se la traslazione ha lo scopo di concretizzare, immediatamente, un pensiero quasi fosse un ritratto e a mano a mano colorarlo e incorniciarlo, in questa occasione, probabile invece che si possano solo definire a grandi linee i perimetri.

Grossolanamente potrebbe essere circoscritta in un ” incastrarsi a vicenda, senza dirselo”.

Un tentativo per dare voce e parola, alla parola stessa, quello di andare indietro nel tempo, al periodo del guerriero giapponese ( Bushi).

Il bushi, oltre al coraggio di sfidare consapevolmente la morte, alle armi e alle ottime tecniche di combattimento doveva possedere la capacità non solo di analizzare prontamente la situazione ma di agire in maniera lucida, immediata e ponderata.

A completare l’ allenamento fisico, dunque, irrinunciabile e imprescindibile quello mentale.

Così, ” Haragei” fu sdoganata e inglobata nell’ arte dei guerrieri qualificandola non con la generale sensibilità inerente alle sensazioni ( che non mentono mai), piuttosto una stretta connessione con la realtà.

Estremizzando il concetto una sorta di sesto senso consapevole.

Letteralmente ” hara”, addome, e ” gei”, arte: riporta alle fondamenta, alle radici dove risiede l’ “hara”, l’ energia.

Privilegio indiscusso dei bambini, che risplendono naturalmente di curiosità, spontaneità ed entusiasmo, più latitante negli adulti, complice le distanze di sicurezza che la crescita, l’ educazione familiare e le tradizioni sociali, fanno irrimediabilmente innalzare; conseguenza, sviluppo della parte razionale a discapito di quella emotiva spontanea.

” Haragei” la voce della pancia!

Una vera e propria arte se si prende in considerazione la provenienza; si parla del Giappone dove è tipico abbandonare una porzione della comunicazione alle allusioni, alle affermazioni vaghe e anche ai silenzi, vuoi perché , di proposito ci si affida agli accenni e alla capacità di far parlare pensieri e sentimenti che la voce sminuirebbe, vuoi perché l’ insinuare, talvolta, si rende necessario per evitare di offendere l’ interlocutore.

Il tutto sembra essere rivolto al mantenimento dell’ armonia sociale.

Come tanti piccoli samurai, i giapponesi reagiscono con compostezza e dignità, spesso senza tanti giri di parole; si esprime la loro coscienza di gruppo.

Pertanto il silenzio potrebbe essere sinonimo di ” onestà” , la pancia non inganna, di pudore e riservatezza, delegando il resto ai gesti e alla mimica facciale.

Il saper leggere fra le righe veicola una comprensione reciproca, sintonizza la percezione sul creato o su un essere affine con il quale si condivide un ” io” profondo.

La comunicazione non verbale appartiene ai più accurati e coscienziosi, rappresenta l’ espressione profonda, sovente, inconscia e involontaria, che si manifesta nei gesti; l’ aspetto più profondo che “sente l’ anima, trasformando il silenzio in una dimensione individuale e comunitaria.

” Haragei” è incastrarsi senza dirselo.

Una sorta di telepatia che prende vita da una particolare affinità elettiva; un modo di parlare inequivocabile senza abusare delle parole.

“Haragei è intuirsi ad occhi chiusi, sapere che nel buio, là fuori, c’è qualcuno come noi”. ( E. Galiano)

In esperanto si dice ” Samlunano” chi proviene dalla stessa luna; individui, per i più definiti ” strani” ma che fra loro si riconoscono e si comprendono.

Francesca Valleri