A ME GLI OCCHI

Lo so ( e qui sta a suo agio pure un sospiro) che il titolo sembrerebbe evocare il divino mago Otelma in compagnia di Giucas Casella se poi a quel ” A me gli occhi” ci aggiungiamo un ” please”, per rimanere in tema di magia, dal cilindro compare Gigi Proietti.
Gli occhi e di conseguenza il vedere sono potere allo stato puro soprattutto quando sono scissi dal “vedere” passivo; uniti al cervello si trasformano in puntuali cecchini.
Veicoli di emozioni, da Dalì al Surrealismo sono stati esplorati come portale verso l’inconscio e se le mani riescono a parlare, loro talvolta sono capaci di ipnotizzare come quelli di Sharbat Gula, la quindicenne afghana che McCurry ha reso iconica.
Per qualcuno “specchio dell’anima” tant’è che ” li dipingerò quando conoscerò la tua anima”; sempre lasciati volutamente incompleti, bui, vitrei e senza pupille quelli di Modigliani perché interpretandoli quali finestra sull’intimo degli individui, non ha mai voluto tradire il proprio credo tratteggiando ciò che non conosceva.
Per gli Egizi sfioravano il divino tant’è che ne bastava solo uno quale protettore spirituale e fisico, quello di Horus, per Frida Khalo scuri e sotto l’ala continua delle sopracciglia esploravano i sentimenti, Dalì li riproduceva ossessivamente in quasi tutte le sue opere quale possibile finestra spalancata sulle questioni invisibili così come il suo collega Magritte.
Lo sguardo è ” qualcosa” che parla alle coscienze, gli occhi sfidano, ammiccano, si rallegrano, si bagnano, si emozionano, sono ” audaci come leoni, vagano, corrono e parlano tutte le lingue del mondo” (R. W. Emerson), producono urti emotivi, negli innamorati sono lo specchio dove viene riflessa l’idea di riconoscimento, dando vita ad una relazione pura ma soprattutto immediata, sono capaci di denudare l’anima.
” Se uno guarda con la parte migliore migliore del suo occhio, la pupilla, guarda la parte migliore dell’occhio dell’altro e vede se stesso” ( Platone)…e probabilmente non riguarda solo gli innamorati.

Se andiamo a ritroso la radice dell’occhio la si trova nella parola “filosofia”, dalla radice ” phos” luce che fa riferimento alla facoltà sensoriale della vista e allora tutto diventa un gioco da ragazzi…perché ” intuire” dal latino ” intueri” ovvero guardare a fondo e lo stesso sostantivo ” teoria” dal greco ” theoreo” osservare; dunque l’occhio che diventa luce come nel XXXIII canto del Paradiso attraversate le bolge infernali, scalato il monte del Purgatorio si ritrova dinanzi alla vetta della contemplazione Dio.
Medesima affinità nel Corano dove Dio viene descritto come una lampada contenente luce: ” Allah è la luce dei cieli e della terra. La sua luce è come quella di una nicchia in cui si trova una lampada, la lampada è un cristallo, il cristallo è come un astro brillante…”.
Allora quando ci riferiamo all’urgenza di ” imparare a pensare” intendiamo la necessità di vedere esercitando dunque la “visione” di Schopenhauer divenendo ” puro occhio sul mondo”…e quindi aveva ragione Platone ” L’uomo che vede davvero è chi dalla caverna è uscito, inebriandosi della luce del sole. Chi nella caverna decide di restare è destinato alla cecità”.
