“VAGHEGGIARE” NON MORDE

Ci sono, nel vasto firmamento del linguaggio, stelle che un tempo brillavano fiere e orgogliose e che oggi languono nell’oblio come “vecchie” dive del cinema muto, abbandonate in una villa liberty con tendaggi socchiusi e un pianoforte scordato.
Si parla di parole desuete, di quelle di altri tempi che sembrano portare e conservare il fruscio delle gonne in taffettà.
Chi osa ancora, senza un sospiro ironico, pronunciare un termine come “sovente”?
Chi osa scrivere “or dunque” senza temere di apparire un personaggio di Pirandello?
Eppure quanto fascino risiede in questi suoni un po’ polverosi, in queste sillabe che non gridano ma bisbigliano come un segreto confidato dietro un ventaglio.
Il lessico, come ogni organo vivente, muta, si rinnova, perde pezzi, ne aggiunge di nuovi, tuttavia mentre accogliamo con zelo “spoilerare, crushare, ghostare” potremmo scordare di preservare quelle dall’eleganza intramontabile.
Un po’ come se decidessimo di abbandonare un museo di capolavori perché silenzioso.
Le parole antiche come “ampolloso, sussiego, gaudio” mantengono ancora la fierezza di un timbro e di un colore; “ineffabile” non significa solamente “che non si può dire”, è un lampo di eternità vero e proprio un po’ come il “vago lume dell’infinito” leopardiano, evocando proprio l’ineffabile.
E allora come non pensare a quella “sicumera dandy” irresistibile di Gabriele D’Annunzio che parlava di sé con la medesima serietà con cui Michelangelo parlava della Creazione di Adamo!
Le parole desuete non servono, ed è proprio questo il loro incanto.
Non sono necessarie alla comunicazione funzionale: nessuno ha necessità di un “vagheggiare” quando può “immaginare”, di “procacciare” quando può “ottenere” ma la lingua , signore e signori, non è solo uno strumento, è arte e bellezza.
Nel pronunciare vagheggiare non viene descritto semplicemente un atto mentale, viene tinteggiato di un alone romantico.
Provate a dire “ella vagheggiava un futuro di rose e di perle”…sembrerebbe forse musica?…sembrerebbe di vedere quasi un personaggio di Luchino Visconti: “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna tutto cambi”.

Manzoni che pur cercando la ” lingua viva del popolo” non poté evitare di seminare nei Promessi Sposi un “colui, giovinetto, cotesto”.
Nell’epoca che idolatra la velocità e diffida della complessità, dove una parola lunga è sospetta, una frase articolata un lusso che pochi si concedono, i messaggi si accorciano, le frasi evaporano, gli aggettivi si riducono a emoji, le parole desuete tornano a brillare di luce propria.
Sono favorevole al recupero ragionato delle parole dimenticate, al “gaudio” inteso come gioia elevata all’ aggettivo “avito” che profuma di nobiltà, fino all'”albagia” ( che parola!) la vanità elegante, l’orgoglio vano.
Riscoprire le parole “antiche” è un atto di resistenza culturale, non sono mera comunicazione, piuttosto il lusso dell’inutile, la lentezza dentro la velocità; non si tratta di tornare indietro ma di custodire un giardino segreto.
Ogni generazione perde parole e con esse sfuma pure un modo di pensare e quando il linguaggio si semplifica non scompaiono solo le parole, scompaiono i sentimenti intermedi, i grigi fra i bianchi e i neri.
” Il superfluo è la sola cosa di cui non possiamo fare a meno”. ( O. Wilde)
Accanto a “scrollare” lasciamo un “sospirare”, ci salverà dalla povertà dall’espressione, quella che confonde la rapidità con l’intelligenza.
