“L’OCCHIO DEL CUORE”

Si dice che quando il cuore si arresta, cessi la nostra esistenza, sia esaurita la sabbia dentro la clessidra, sia terminato il viaggio.

Alcuni studi però affermano che, nonostante il cuore non sia più in grado di pompare, il cervello, per una manciata di secondi o forse più, possa invece continuare a essere operativo, come quando siamo in uno stato di dormiveglia e riaffiorano i ricordi.

Nell’epoca dell’impermanenza ( e lo scrivo con un sorriso ironico e beffardo) l’unico aspetto quale comune denominatore è il medesimo per cui ci si spende faticosamente affinché venga rimosso.

Il game over, il gong è il tabù per eccellenza, non se ne parla, non ci si ascolta, semplicemente lo si ignora comportandoci in modo tale da far presupporre che la nostra permanenza in questa dimensione possa essere eterna fino a quando, in un giorno qualsiasi, la morte non faccia visita a qualcuno dei nostri cari e in quel preciso istante l’impermanenza assume le fattezze della paura, imbarazzo, negazione e distanza, quella che ci sbatte in faccia il conto di quanto i rapporti siano privi di “intimità”.

In tempi moderni la morte e la sofferenza sono diventate questioni individuali ma non intime, non intime quanto l’ultimo commovente incontro fra l’eroe omerico e il suo fedele Argo che dopo vent’anni è il primo, nonché l’unico inizialmente a riconoscere Ulisse; scodinzola e abbassa le orecchie in segno di rispetto e passa a miglior vita solo dopo essersi assicurato di averlo salutato per l’ultima volta.

Accade un silenzioso riconoscimento fra i due.

Può accadere che nell’ora del trapasso l’umanità si riconosca in una lacrima quella ” morente”, quella che sgorga dall’occhio sinistro ( si dice che rappresenti la parte del dolore, mentre la destra, la gioia); nella goccia c’è l’essenza dell’amore, del dolore e dell’accettazione e coincidono nella continuità esatta che è intrinseca nella vita e nella morte.

C’è una “storia” persiana che descrive il vivere umano nell’eterno e costante dilemma e che lo paragona a una goccia d’acqua che cade come pioggia, fino ad approdare nell’oceano per dissolversi; il limite della nostra vita si gioca dalla nuvola al mare.

Non sapremo mai, o meglio lo dovremmo scoprire al momento ( il più tardi possibile, si intende) se ci sarà mai quella luce in fondo al tunnel o una distesa di grano che ci conduca fino all’orizzonte come nel ” Il Gladiatore” dove le mani accarezzano le spighe e una visione serafica ci abbraccia dopo i drammi terreni.

Non credo sia possibile ” descrivere” il trapasso, forse l’unica esclusiva personale responsabilità, parafrasando la favola persiana, è comprendere se siamo la goccia o l’acqua.

Francesca Valleri