CASTAGNE E DOSTOEVSKIJ

C’è un momento dell’anno, più o meno la metà di ottobre giorno più giorno meno, in cui l’autunno si prende definitivamente la scena, cessa di essere un accenno timido svestendo i panni della stagione gentile che ci illude di poter cenare ancora all’aperto e diventa un’opera in piena regia.

Le foglie cadono come se avessero appena scoperto Dostoevskij e precipitano a terra con la medesima drammaticità di un monologo di Cechov: lente, consapevoli e con la volontà e l’urgenza di essere viste ( non guardate).

La luce si fa obliqua, i tramonti incendiari, i mattini lattiginosi , il cielo si tinge di infinite nuance di grigio e riscopriamo la suprema arte del lamentarci del freddo.

Da secoli la letteratura lo ha eletto quale stagione della riflessione, quel mese che più di ogni altro sembra essere nato per ispirare la parola scritta: Keats lo definiva ” Mellow season” il tempo della dolcezza e della maturità, Emily Bronte lo vedeva popolato di venti che scompigliavano capelli, anime e destini, Montale la metafora dell’attesa e del vuoto, mentre Pascoli sospirava alle nebbie.

Per Pavese, l’autunno era simbolo di solitudine e silenzio interiore, il ritorno alla terra natia avveniva proprio in questo periodo (” La luna e i falò”), fra i vigneti spogli e i cieli grigi, quasi a sottolineare che l’introspezione era più “facile” in questa stagione.

Noi ci commuoviamo davanti alla sagra della castagna e al ritorno della coperta sul divano…sono cambiati i tempi?

A ben vedere e ” sentire” la poesia vive e sopravvive nelle piccole abitudini e ritualità.

Va detto per amor di verità che l’autunno ha un suo fascino ” cinematografico”, quel misto di malinconia e possibilità, di tramonto e rinascita: a New York, ” When Harry Met Sally” ci ha insegnato che è sufficiente una sciarpa e qualche foglia arancione per innamorarsi, Woody Allen passeggiava in Central Park trasformando i propri passi in filosofia urbana, mentre noi sui viali cittadini con l’ombrello che si ribalta alla prima folata di vento…non sarà glamour ma sicuramente realistico!

Pupi Avati ha raccontato un autunno padovano fatto di nebbie, sospeso fra memoria, ricordo e rimpianto.

E’ curioso il fatto che il cinema sia stato in grado di insegnarci che è sufficiente una sciarpa lunga per vivere un’esperienza romantica; nella vita reale invece la sciarpa ci difende da una bronchite mentre si corre dietro a un autobus che non arriva mai puntuale.

E così l’autunno ci svela e disvela il paradosso del tempo, la poesia struggente del paesaggio da un lato, dall’altro la prosa ( impietosa) della vita quotidiana.

Vivaldi ci ha regalato un ” Autunno” energico da festa della vendemmia con violini vivaci, Chopin ci ha lasciato notturni perfetti per commuoverci alle finestre…oggi la colonna sonora è una playlist di Spotify ascoltata con gli auricolari mentre imprechiamo contro il vento e il famoso ombrello…l’evoluzione del gusto.

L’arte ha raccontato questo paesaggio con devozione e una buona dose di inquietudine e per amica campi di ” gialli brucianti” ( Van Gogh), per poi planare su nature morte di zucche e melograni in bilico fra l’abbondanza e la fine.

L’autunno rimane paradosso puro.

Lirico e prosaico, elegante e umido, dorato e raffreddato, che ci disegna tutti quanti come personaggi-protagonisti di un romanzo russo e probabilmente il suo fascino risiede in parte esattamente qui: la malinconia non è mai totale e totalizzante e anche nel tramonto più struggente c’è posto per una risata.

E’ una terra di mezzo dove tutto sembra avere un passo lento.

L’ombrello rotto no: lui resta il simbolo fedele dell’autunno, una natura morta contemporanea.

Francesca Valleri